Momenti del Podcast
00:04 Introduzione
Gli ospiti della Casa dei Mandorli - Da La Casa dei Mandorli, Minerva Edizioni 2012
Ci sono persone che hanno frequentato la mia casa lasciando per sempre l'impronta
della loro presenza.
Insomma, voglio dire che l'aria della casa contiene per sempre quelle figure a me
tanto care e di grande compagnia.
- Inna Olevskaja con la sua pelle bianca e il suo camminare nel giardino, sotto un
ombrello chiaro, nei giorni di sole pallido.
- Andrey Khrzhanovskij e la moglie Mascia, il pachiderma bianco e la sua piuma, si
muovono in coppia ripetendo la cerimonia di uno sposalizio felice.
- Il Professor Alexander Konovalov, col suo malinconico ottimismo dietro le lenti
degli occhiali.
- Vladimir Naumov coi suoi giochi di sopracciglia da uccello rapace.
- Rivedo Andrej Tarkovskji accanto agli arredi che ho portato dalla casa di Roma,
che lui frequentava tutti i giorni. Quasi sempre sta a testa bassa con la mano che
smuove i capelli come se fossero quelle dita a far nascere le idee.
- Spesso nello studio incontro Ghia Danelia. La sua visita mi arriva quando mi trovo
in un momento di smarrimento. Non parla, vuole essere semplicemente una
presenza viva. Il suo sguardo di un consolante e ironico pessimismo, mi dice che
tutto ha poca durata e anche le sofferenze diventano polvere, anzi sono
semplicemente delle ombre che si sciolgono nell'aria.
- A volte, quando mi chiudo nei momenti di solitudine nello studio, risento la voce di
Francesco Rosi, con un velo d'umidità che rende più profondo l'affetto. Ricordo i
tempi della sua Spagna e il nostro guardare le cicogne nel cielo di Trujillo. Stavamo
con la mente ad aiutare quei rami pesanti, retti dal becco, per la sistemazione dei
nidi sulle torri attorno alla piazzetta assolata. E pochi giorni dopo, la nostra partenza;
la mattina presto, da Siviglia, coperta dallo sgocciolio chiaro delle candele, che per
tutta la notte avevano illuminato la Madonna Macarena, in festa lungo le strade
piene dell'odore di pesce fritto. E ricordo anche i giorni passati nel mio studio di
Piazzale Clodio, col suo borsellino pieno di matite e gomme per cancellare gli
eventuali errori e la nostra passeggiata sul terrazzo per rallegrarci di una buona
soluzione di alcuni momenti della sceneggiatura che stavamo scrivendo. Poi,
quando lui se ne andava, rimetteva a posto tutte le matite che aveva ordinato sul
tavolo e le ammucchiava nel borsellino con grande cura, tardando a prendere il taxi
che aspettava sotto e intanto suonava.
- Nel mio studio al piano di sopra rivedo Theo Angelopoulos seduto sul bordo del
divano per essere pronto ad alzarsi e riferirmi qualcosa sulla sceneggiatura. Lui
preferiva parlare in piedi per far cadere le parole dall'alto. La tazzina che usava Theo
per il suo caffè è sempre posata sulla scrivania. Non è un oggetto artistico, anzi è
una cosa di poco conto e molto commerciale. Non sarebbe stato un guaio se
l'avessimo rotta. Ogni tanto la guardo per rivedere la sua cerimonia, lunga al punto
che, continua a portare alla bocca la tazza anche quando non c'è più il caffè ma
magari soltanto per annusare un po' di profumo. Di lui soprattutto ricordo quando mi
ha regalato un viaggio nella sua Grecia, che siamo arrivati ad Olimpia per vedere il
campo dove sono state fatte le prime Olimpiadi. Ho ammirato con stupore la linea di
partenza della corsa. Una riga di pietra ancora intatta.
Mi sono messo nella posizione dei corridori nell'attesa dello sparo o dello sventolio
della bandiera. Sono restato a lungo tempo in attesa che iniziasse la mia corsa. In
quel momento ho pensato che l'immobilità forse era la mia volata finale.
Mi vedo sempre bloccato su quella linea e aspetto di cominciare la mia corsa o di
finirla.
- Mi manca una fotografia fatta da Michelangelo Antonioni con la Polaroid che
portava sempre con se al tempo dei nostri sopralluoghi in Uzbekistan, per un film
che poi non ha fatto. Giravamo spesso seduti sul cassone di un camioncino per
vedere il paesaggio. Un pomeriggio scopriamo tre santoni uzbeki che camminavano
lungo la strada. Pensiamo di dargli un passaggio e loro accettano. Stavano seduti
vicino a noi in silenzio e chiusi in una loro lunga meditazione. A un certo punto il più
anziano fa segno di fermare e loro scendono. Anche Antonioni scende per
fotografarli. Consegna loro una delle immagini, quale ricordo di quell'incontro. Il più
anziano dà un'occhiata alla foto. La mostra ai compagni, poi la riconsegna a
Michelangelo, dicendo: «Perché fermare il tempo?»
Quella foto l'ho tenuta io e sicuramente l'ho sistemata fra le pagine di un libro che
non riesco a trovare, ma c'è.
I tanti anni passati con Michelangelo viaggiano con noi, sul vecchio barcone che
scivolava sulla Amu Darya, guidati da uomini uzbeki che, con lunghe stanghe
tenevano lontana l'imbarcazione dai cumuli di sabbia del fondo.
Eravamo con zingari e uzbeki seduti dentro due sidecar.
Ci aspettava, laggiù in fondo, un paesaggio nebbioso e Michelangelo mi disse: «Mi
sembra che andiamo a Ferrara, la mia città piena di nebbia».